
C’era una volta un luogo che custodiva il respiro del femminile.
Non si trovava sulle mappe, non aveva coordinate. Esisteva solo nei passi di chi sapeva ascoltare.
All’inizio non si sentiva. Sfuggiva come sabbia tra le dita, come un vento che accarezza senza toccare. Poi, pian piano, cominciava a penetrare nel corpo, o ancor più ad emergere dal corpo, a scorrere nelle vene, fino a far riconoscere qualcosa che da sempre si sapeva, ma non si ricordava.
In quel luogo, la terra non era solo terra.
Era grembo, era memoria, era la pelle della Madre.
Questo posto io l’ho scovato solo qualche anno fa:
il Femminile, che è sacro.
La scoperta del femminile sacro è arrivata a me quasi all’improvviso, eppure si è fatta strada lentamente, silenziosa, come un fiume che scava la roccia.
Già molto mi legava a lui: la luna, che fin dall’infanzia notturna mi faceva da compagna silenziosa; l’acqua, che con il suo suono mi ha sempre donato calma — che fosse fiume, ruscello, cascata o che si facesse lago o mare; il fuoco, che ardeva nel camino di mia nonna durante le sere d’inverno, quando tutte le donne della famiglia, io e mia sorella ancora bambine, ci raccoglievamo intorno a lui; il vento, che da sempre mi affascina spaventosamente; la terra, con cui amavo sporcarmi le mani e respirarne l’odore. La natura tutta.
Eppure, ancora non ero pronta a vedere che tutto questo comprendeva la grandezza del femminile.
La prima volta che ho messo piede in Sardegna non l’ho sentita mia. Come se fossi rivestita da una corteccia ruvida e impenetrabile. Anni dopo ho compreso che non era ancora il suo momento. Poi, da quella distanza sottile, fragile come un capillare, è sgorgata una vena copiosa di sacralità, potente e inarrestabile.
Qui ogni roccia ha una memoria, ogni nuraghe è un pilastro che ti collega al cosmo, ogni domus de janas è un grembo scavato nella terra che ti ricorda da dove vieni. È una terra che respira attraverso le sue pietre, che canta nel vento, che porta inciso il respiro delle antenate. Una terra che custodisce, silenziosa e potente, il segreto della Dea.
Ho camminato tra i nuraghi, enormi e silenziosi, come colonne di un tempio che non ha bisogno di tetto. Ho varcato le soglie delle domus de janas, case delle fate e tombe delle madri, scavate nella roccia viva. Lì, nel buio fresco, ho sentito qualcosa che non si può spiegare: il respiro della Madre. La Madre che tutto genera e tutto accoglie.
E poi il pozzo. Il Pozzo Sacro di Santa Cristina.
Non è solo architettura: è un passaggio, una soglia. La sua forma uterina, ricorda l’immagine antichissima della vulva. Una vulva ciclopica, scolpita nella pietra, che richiama i culti della fertilità e le divinità femminili come Tanit. È un grembo a cielo aperto.
La scalinata rovesciata scende verso il basso, ma non dà la sensazione di cadere: piuttosto, di essere guidati. Ogni gradino è un passo dentro la terra, verso il ventre, verso l’acqua. La discesa stessa è un rito. Sopra resta il cielo, sotto l’oscurità del grembo: in mezzo, tu. E in quel punto intermedio senti che la scala non è solo un mezzo per scendere, ma un collegamento tra mondi.
L’acqua che raccoglie è viva, vibrante, legata intimamente alla Luna. Ogni diciotto anni e mezzo, al tempo del lunistizio maggiore, la Luna si riflette sul fondo, illuminando l’acqua come uno specchio celeste. Agli equinozi, invece, è il sole di mezzogiorno che penetra nella scalinata e porta la sua luce fino al cuore del pozzo. Cielo e Terra si incontrano in una danza perfetta: il maschile e il femminile, la luce e l’ombra, la vita che sempre si rinnova.
Acqua che accoglie e restituisce, che trasforma e purifica, che riflette la luna e le stelle, come se contenesse il cielo stesso.
Questi momenti sono riti cosmici. Sono il linguaggio con cui gli antichi parlavano con il mistero. Marija Gimbutas, nei suoi studi sulla Grande Dea, ci ricorda che simboli come la vulva, la spirale, l’acqua e la luna attraversano epoche e culture diverse. Sono archetipi universali, immagini che custodiscono la memoria della vita, della morte e della rinascita.
E allora capisci che nulla, qui, è casuale. La scala capovolta non è solo ingegneria: è un ponte tra visibile e invisibile. L’acqua non è solo riserva: è ventre che trasforma. La luna non è solo un corpo celeste: è guida, ritmo, sorella. Tutto parla lo stesso linguaggio: quello del femminile sacro.
La Sardegna intera sembra vibrare di questa energia. Le janas che tessono destini nella notte, le Madonne nere che custodiscono segreti antichi, le acque che guariscono e trasmutano. Il femminile sacro è proprio lì, sotto i piedi: è canto che sale dalle viscere della terra, preghiera scolpita nella pietra, soglia sottile tra il mondo che vedi e quello che non si mostra.
Nel pozzo sacro di Santa Cristina ho sentito riflessa anche la mia trasformazione. Scendere quei gradini e trovarsi di fronte all’acqua silenziosa, illuminata da luce celeste, è come specchiarsi in una parte di sé che non avevi mai guardato. È un incontro che ti trasforma, anche se non sai dire come. Ti porta dentro, ti restituisce fuori, altra.
E poi apri gli occhi ed afferri che non serve un luogo speciale per sentire il Femminile e il suo essere sacro. Puoi trovarlo ovunque: nella luce della luna paziente, nella corrente di un fiume, nel battito farfallino del tuo cuore. Ovunque ci sia presenza, ascolto e apertura, il femminile sacro è lì, vivo, che ti riconosce e ti accoglie.
In quei momenti ogni luogo, ogni incontro, ogni esperienza diventa rito.
Ogni gesto diventa simbolo. Ogni respiro diventa preghiera.
E tu, finalmente, sei parte di qualcosa che ti attraversa senza chiedere nulla in cambio, che ti trasforma senza rumore, che ti ricorda chi sei davvero.
